Da fisico nucleare ad abate di Praglia: «Cercavo Einstein, poi San Benedetto»
La scelta di Stefano Visintin che ha abbracciato la spiritualità monastica: la scienza non mi dava tutte le risposte che cercavo. La pandemia? «Ha messo in discussione le certezze di un certo mondo. Forse Dio ci ha voluto dire di essere più spirituali»

A guidarli è lui, Stefano Visintin (nella foto di Luciano Tomasin), un sessantunenne dall’aspetto giovanile e dai modi semplici che nascondono un passato sorprendente. Prima di approdare la vita monastica, l’abate Visintin faceva infatti lo scienziato e pure ad alto livello. Si occupava di acceleratori di particelle nell’ambito di un progetto dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare.
«Cosa guida il mondo?»
Proprio così, era un fisico nucleare e per anni ha viaggiato fra l’Italia e gli Stati Uniti passando da un laboratorio all’altro, Trieste, New York, Padova, Rochester. «Studiavo spettrometria di massa ad alta energia, cioè la presenza di elementi chimici molto rari, tipo quelli dei meteoriti», precisa complicando le cose. In estrema sintesi, cercava nella fisica le risposte alle domande esistenziali che agitavano la sua mente: «Perché esistiamo? Qual è la realtà ultima? Pianeti, sole, stelle, e poi?». L’abate parla di atomi e neutroni come si parla di calcio al bar del paese, mentre passeggiamo accanto al chiostro botanico fra colonne medievali, logge e capitelli. «… le domande rimanevano però senza risposta. Perché la scienza è insuperabile per conoscere la natura ma è anche impotente di fronte al primo interrogativo: cosa guida il mondo? Più mi armavo di strumenti tecnici e più aumentavano i dubbi. Ho capito cioè che sopra certe quote c’è solo la trascendenza e così a un certo punto ho detto no, non posso continuare su questa strada. E mi sono affacciato alla spiritualità monastica. Non è stato facile ma è stata la scelta giusta». Una scelta certamente radicale. Che lo ha portato a un’immersione totale nella teologia: laurea, dottorato, insegnamento, fino a diventare Magnifico Rettore del Pontificio ateneo di Sant’Anselmo. E, dallo scorso anno, abate di questa millenaria cittadella spirituale che, tra l’altro, ospita una grande biblioteca eletta a monumento nazionale.

Dalle formule alla fede
Dall’Istituto di Fisica nucleare, dunque, all’abbazia, dalla scienza alla trascendenza, da ciò che si vede a ciò che non si vede. Da Einstein a San Benedetto. Passando per autori come Tellhard de Chardin, gesuita, paleontologo «scrittore cristiano che si apriva alla scienza e alla tecnologia, uno dei miei favoriti», e Pascal «un matematico che mette insieme fede e ragione». Il suo ambiente naturale oscilla fra lo studio delle formule che governano la materia e quelle invisibili del cielo. «Vedi lì, l’orto, pomodori, melanzane, zucchine. Poi c’è l’aia, anatre, oche, polli… materia. Più in là vigneti e la stalla…». E ancora più in là, oltre il bosco e oltre il monte c’è, sotto il cielo, Vo’ Euganeo, il paese simbolo della nuova peste. Primo focolaio italiano, primo decesso per coronavirus e prima grande paura. Quando fuori tutto sembrava volgere al peggio, i monaci si ritiravano nella loro abbazia, in questo mondo dell’ora et labora rimasto immune al contagio.

Pandemia? Per noi momento di grazia
«Eravamo tornati allo spirito più austero, più intenso della regola benedettina. L’ho considerato un momento di grazia particolare che ci ha consentito di vivere l’essenza della vita monastica. Nessun turista, nessun ospite, negozio chiuso. Meno distrazioni e questo ci aiutato a riflettere, ad approfondire, come se fosse stato un lungo periodo di esercizi spirituali». Riflessioni sul nemico invisibile. «La pandemia mette in discussione la fiducia smisurata che questa civiltà ripone nella scienza e nella tecnica. Ci ricorda che siamo tremendamente fragili, che tutto può finire, che la materia finisce. Il virus ci sta dicendo che forse siamo stati troppo arroganti».
Incrociamo qualche monaco, solitario, silenzioso, senza mascherina. All’interno, nei laboratori, prosegue il restauro di libri e antiche pergamene.
L’arroganza e il messaggio
Siamo entrati nella sala degli abati, dove si accolgono gli ospiti. Lui si siede a un paio di metri di distanza e prosegue nel suo viaggio fra scienza, fede e pandemia: «Dicevo che la scienza non ci potrà mai salvare da ogni nostro male e la pandemia lo sta dimostrando. Basta un virus, un essere invisibile, e viene a galla tutta la debolezza della condizione umana. Pensavamo che le epidemie, sars, ebola, riguardassero ormai solo altri paesi, dove non c’è una sufficiente cultura scientifica. Non è così. Non avremo mai in mano la natura, nonostante il progresso e la ricerca, che ci può aiutare, sia chiaro, ma non può salvare il mondo. L’uomo non sarà mai autonomo, autosufficiente. C’è qualcosa di molto più grande che sta sopra di noi e nulla potrà mai superarlo. Il peccato originale è sempre lo stesso: l’uomo che vuole farsi Dio. Magari è questo che Dio ha voluto dirci: bisogna essere più umili, spirituali». Parola di abate e fisico nucleare, che alla scienza ha preferito la preghiera. Ma ha trovato le risposte che cercava? «La ricerca è senza fine».